Le storie horror, come più in generale tutte le storie in cui compaiono elementi fantastici, sono un perfetto rimedio alla monotonia della vita moderna. Una valvola di sfogo, evasione pura. Ma è anche vero che per funzionare ed elevarsi ad un gradino narrativo più ampio le storie devono essere capaci di incorporare la vita di tutti i giorni, senza farsene accorgere. Prenderne i tratti, snaturarli, renderli finzione e, alla fine, quando le difese sono abbassate, colpire duramente con la sciabola della riflessione.
Ecco, se una storia di finzione riesce a fare una cosa del genere, riesce ad essere fruibile su più livelli e, alla faccia di chi denigra gratuitamente il medium fumetto, funziona maledettamente bene.
Il quinto comandamento è una storia così. Torna a scrivere il poliedrico Andrea Guglielmino e lo fa con una storia che potremmo dire intimista, ma che in realtà tratta temi universali. I dilemmi morali che ci sappiamo infliggere quando la realtà cozza paurosamente contro le nostre convinzioni sono una trappola mortale, ma anche una opportunità di farci riflettere e metterci in discussione.
Così in questa storia capita al nostro amato padre Duncan. Con una riflessione che inizia da un brano di De Andrè (il testamento di Tito, uno dei più belli, specie se ascoltato nell’arrangiamento della PFM) e ci spinge a discutere sul comandamento che più di ogni altro Duncan dovrebbe rispettare. Non uccidere, rispettare la vita in qualsiasi forma.
Duncan si trova in compagnia di un amico dei suoi trascorsi irlandesi, Jerome. Ridotto al letto da una serie interminabile di sfortune iniziate però con il suo passato di affiliato all’IRA. Jerome non può più muovere braccia e gambe e sta facendo formale richiesta di morte assistita, perché per lui un’esistenza chiusa in una prigione di carne non è più tollerabile. E non sottovalutate questo tema, perché la libertà da qualsiasi tirannia è un elemento portante reso a più livelli e che, intanto, ci permette di affrontare una pagina impolverata del passato di Duncan (ma io voglio leggere di più del suo passato di missionario, nota a margine).
Jerome e Duncan si conoscono da sempre. Duncan ha già intrapreso il suo percorso spirituale, il suo controllo dell’odio e della rabbia. Jerome no, e la morte di suo fratello durante una protesta lo ha portato a posizioni molto radicali. I due si allontanano, ma non si perdono. E quando un invecchiato Jerome fa istanza per un suicidio assistito, Duncan corre a fargli cambiare idea.
Ma siamo in una storia horror, giusto? Quindi non dobbiamo dimenticare l’elemento sovrannaturale che si palesa. Ed in questo caso è il demone personale di Jerome, che non vuole che lui muoia, anzi, addirittura riesce ad avere la forza necessaria per farlo tornare a camminare e muovere le braccia.
Quindi il dilemma morale si amplifica e fortifica grazie anche alla presenza di Sam. Samuel è smarcato dai vincoli cattolici di Duncan. La loro amicizia è pura proprio perché non condizionata da alcuna convenzione. E la domanda che si pone è semplice ma essenziale. Uccidere il demone tornerebbe Jerome a volerlo uccidere. Il quinto comandamento allora?
Non esorcizzarlo per non fargli tornare la voglia di morire.
Non vi voglio raccontare i risvolti in cui questa disamina procede, perché farlo significherebbe rovinarvi una delle letture più piacevoli di quest’anno appena iniziato. Quello che succede però è un esame di coscienza approfondito, assecondato da prove e suggellato da una richiesta a viva voce dello stesso Jerome.
Il tutto è descritto minuziosamente da Martello, che rende le tavole morbide con una armoniosa alternanza di matite e chine. I personaggi sono carichi di espressività, Duncan e Samuel soprattutto, nascosti dall’armatura delle loro barbe sprizzano ogni sentimento che li pervade attraverso gli occhi. Ma lo stesso si può dire di tutti gli altri personaggi coinvolti, lo stesso Jerome, posseduto o meno, si muove con una grazia e dinamicità quasi del tutto inediti per il genere d’avventura.
Le ultime due pagine, colpa mia che ogni tanto sono cinico, arrivano non inaspettate. Eppure, maledettamente colpiscono. Anche se lo fanno con una dolcezza più morbida, arrotondata. Tutta la storia dona chilometri di introspezione al nostro Duncan che è indiscutibilmente il protagonista della storia, con tutte le sue contraddizioni e la sua maledetta umanità.
C’è un momento molto forte, sul finale della storia, dove viene ancora di più messa a fuoco l’ipocrisia e l’inefficienza della sua dottrina. Fuori da ogni moralismo, viene controbattuta la tesi del quinto comandamento. E va bene.
Poi però. Come vi dicevo, una buona storia deve far riflettere, anche da angolazioni, magari non previste dallo stesso autore. Allora, con la stessa arroganza che reputerei ad un crociato, perché non uccidere è vero, ma non per i demoni che vengono esorcizzati?
Grazie per la bella recensione. Provo a rispondere, per seguire il tuo discorso: perché tecnicamente i demoni non muoiono, ma finiscono il Legione. Anche se, a quanto pare, preferirebbero morire anche loro!
grazie a te! però se ci pensi fondersi ad una coscienza collettiva dovrebbe essere percepito anche da Duncan come una sorte di morte… o no ?
Direi di no. Capisco quello che intendi ed è anche interessante, ma Duncan è molto netto nelle sue posizioni (questo lo abbiamo visto più volte, anche in Legione e altri episodi) e non riconosce i demoni come forme di vita. Al limite quello in dubbio potrebbe essere Samuel. Ma lo è anche per gli uomini. Samuel è l’uomo del dubbio. Duncan non è un personaggio “etico” di partenza. Segue la Bibbia e per la Bibbia il male è univoco e va eliminato.