La ristampa cartonata del Pianeta dei Morti procede a passo spedito raggiungendo il volume cinque. Allo stato attuale rimangono quindi solo tre volumi e circa un anno di pubblicazione prima che l’operazione possa dirsi conclusa.
So che molti che seguono una collana seriale di volumi si preoccupano di simili considerazioni, per cui è anche sensato prenderle subito di petto.
Detto ciò, la saga ideata da Alessandro Bilotta riprende con questo volume dove si era interrotta nel precedente. La situazione è fortemente complessa e, a volte, intrisa di un forte anelito psicologico ed onirico al tempo stesso. Al punto che distinguere tra le realtà, sfidando se stessi alla ricerca di un nesso razionale, in questo caso può risultare un’impresa sin troppo ardua.
L’intera vicenda ruota attorno al rapporto tra Dylan e Godwin, il figlio avuto da Sibyl Browning senza che lui ne avesse mai saputo nulla. Dylan è rimasto ferito alla fine del volume precedente e, mentre lotta tra la vita e la morte Godwin ne prende il posto.
Eppure sembra.
Tutta la trama si dipana in un lento incedere in perenne oscillazione tra realtà e illusione. Bilotta ci porta a riflettere su quello che ci attende dopo la morte. Un po’ come la vecchia ballad di Dylan (Bob), la morte non è la fine. Alessandro è il nocchiere tra questi freddi meandri raccontandoci la strana vita di Godwin assumendo l’inciso filosofico che, di fatto, non leggiamo mai una sola versione di Dylan ma numerose quanto le permutazioni del multiverso. E non per tutte, Godwin è contemplato.
La narrativa che ci introduce a questo volume ricorda da vicino la serie francese dedicata ai Revenant (da recuperare se non altro per la meravigliosa colonna sonora dei Mogwai). La vita dopo la morte rappresentata come un ritorno ad una esistenza che non sembra aver predisposto un ulteriore spazio per i dispersi. Questo rende Godwin una figura tragica, quasi melodrammatica, e quindi infinitamente patetica.
Le tavole di Giampiero Casertano contribuiscono, con un perfetto bilanciamento di bianchi e neri ad una analisi quasi naturalista dell’oltre vissuto. Lo spazio, perfettamente gestito dalla gabbia tradizionale del formato quaderno, si traduce in una ulteriore spinta verso il raziocinio in un deserto di casualità. La quantità di dettagli rende le immagini quasi veristiche.
Il risultato finale vi lascerà non senza qualche mal di testa. Ma si incastra perfettamente nella narrazione mai ovvia di Bilotta, impreziosendola di una ulteriore versione di quello che potrebbe tranquillamente essere considerato il Dylan definitivo.