Si è parlato molto, in anni recenti, di come la nuova gestione del detective dell’incubo, lo abbia portato in una dimensione metafumettistica (tanto cara a Grant Morrison) lasciandogli abbandonare un discorso più legato all’analisi rielaborata degli orrori contemporanei.
Al di là che uno degli elementi più importanti, e direi quasi fondanti, è sempre stata l’analisi spietata della realtà, quale modo migliore di affrontare la ME generation se non parlagli direttamente?
In questo caso il corto circuito metafumettistico si risolve in una citazione ricorsiva. Il settimo Sigillo, con la celeberrima partita a scacchi veniva omaggiato in uno degli episodi più classici dell’indagatore (il 66, partita con la morte). Dylan cita se stesso, in una chiave però completamente differente, in questo nuovo albo scritto in maniera splendida da Rita Porretto e Silvia Mericone. La capacità di approfondimento introspettivo unita ad una deriva psicanalitica puntuale rende il tema della partita giocata con la morte accattivante, ponendolo in una prospettiva completamente inedita.
In questa storia facciamo conoscenza con Ruth e Sandra. Mentre la prima è una vecchia fiamma di Dylan, bisognosa di aiuto, la seconda giace in un letto d’ospedale bloccata nel proverbiale passaggio tra uno stato e l’altro della realtà. Ed è in quello sprazzo di irrealtà che si gioca la fatale disputa. Una vittoria, per Sandra significa tornare indietro, ogni pezzo mangiato dalla mietitrice, una nuova vittima.
Chi conosce gli scacchi, sa che sono il gioco più brutale che possa esistere. Non è un caso che la partita possa rappresentare un adeguato surrogato di una seduta psicanalitica. A maggior ragione in questa storia dove le chiavi di lettura sono molteplici ed i sottotesti profondi e dettagliati.
Ci sono gli echi di Sunset Boulevard. Il mondo dello spettacolo visto come una lotta per accettarsi e farsi accettare. I compromessi, i colpi bassi e le pugnalate date e ricevute. La trama non risparmia una profonda analisi delle frustrazioni di una vita passata a cercare di risolvere un problema di integrazione. Ma l’analisi non si arresta a quel punto. Il rapporto con i genitori viene eviscerato, mostrato nella sua cruditè più impietosa e definitiva. La concreta paura di essere visti per quello che si pensa di essere : altro se non merce avariata?
Ma non basta. Come ogni storia con riferimenti sudamericani (che emergono anche dal tratto, aspettate un attimo e ci torniamo), la morte in palio è una storia sul Doppio. La doppia natura, il contrasto tra volere e potere, tra essere ed avere. Le due donne, sofisticata ed indipendente una quanto fragile ed influenzata l’altra, generano un conflitto in cui solo Dylan, al solito, involontario spettatore, riesce a districarsi.
La potenza di questa storia è tutta nella compressione, nel ritmo che la gestisce rendendola sincopata, un passo di tango che non si può eludere, proprio come la temibile scena finale. Dove magari Neil Gaiman ci avrebbe visto una ragazzina vestita in stile goth, ma non se sarebbe cambiato il senso.
Parliamo di Paolo Armitano. Se questa storia è il capolavoro che è, lo deve molto alle matite di questo autore complesso e delicato, capace di una precisione registica quasi millimetrica e che scandisce le scene con dei neri forti ma non opprimenti. La sua urgenza narrativa non gli consente mezze misure, ma il suo lavoro è intenso e morboso. Le espressioni e le corporature sono una gioia vera per gli occhi, ogni singolo tratto permette di definire un’emozione che, per quanto sfuggevole, resiste al (tra)passaggio. ogni sguardo nasconde un segreto, ogni volto una essenza. Il livello di dettaglio dovrebbe garantire a queste pagine una edizione cartonata e gigante.
Si tratta di una storia tra quelle più capaci di imbrigliare lo zeitgeist, quanto la precedente del dinamico due (ne parliamo qui). Una storia di questo genere vive di vita propria e dovrebbe essere destinata a qualcosa di più di una semplice serialità. Bravi, e veramente, tutti e tre!