Mark Waid è uno degli autori più influenti delle ultime generazioni. La sua capacità di unire toni classici ed epici assieme ad una forte introspezione, lo ha reso estremamente versatile. A breve uscirà il suo nuovo manuale, e ne ho approfittato per raggiungerlo in rete e approfondire un paio di mie curiosità…
Il tuo prossimo libro in uscita (How to create comics in the Marvel Way – in uscita a luglio) segue il tradizionale volume di Stan Lee e John Buscema. Come è cambiato da allora il modo di fare fumetti ?
Il digitale ha cambiato tutto. La maggioranza degli artisti oggi lavora completamente in digitale. Fare il lettering manualmente è un’arte dimenticata perché le case editrici pensano che chiunque possa farlo con il giusto set di fonts (non è completamente vero, ma è vero abbastanza dove la paga per il lettering è al giorno d’oggi è ridicolmente bassa). Contattare i tuoi collaboratori o gli editor con le Email ed i messaggi e questo porta ad essere più collaborativi nei progetti. I fondamenti del mestiere rimangono gli stessi – che cosa è una storia, come raccontarla, come definire lo scheletro della sceneggiatura ed il soggetto, ma il digitale cambia tutto il gioco.
La tua prima esperienza in questo mondo è stata come editor. Come ha poi influenzato la tua carriera di scrittore ?
Enormemente. Ho sempre detto che l’occupazione principale come freelancer per Marvel e DC è risolvere i problemi degli editor. E sapere cosa gli editor tendono a prioritizzare e quello che gli scrittori tendono a prioritizzare molto utile per gli editor. Cerco di prestare attenzione alle scadenze, alla produzione e realizzazione, a quale pressione un editor possa essere sottoposto dal suo boss e come abbatterla, e via dicendo.
Hai lavorato ad una lunga serie di personaggi, se dovessi sceglierne due direi Flash e Daredevil. Il tuo Wally West divenne il vero Flash per i fan che finalmente si dimenticarono di Barry Allen mentre con Daredevil sei stato capace di reintrodurre un certo umore più leggero dopo una discreta serie di run che si concludevano tutte con un esaurimento nervoso per Matt Murdock. Che cosa hai amato di queste due esperienze?
Sono due esperienze davvero differenti. Con Wally, sono stato capace di reinventarlo dalle basi, ed ho scoperto che la mia voce, il mio modo di pensare nella vita vera, si adattava a lui molto bene. Con Matt, mi era stato affidato il concetto ‘nessuna identità segreta’ ed ho dovuto immaginarmi come inserirlo nelle mie storie, ma è stata una sfida ben accetta. Matt è meno legato alla mia vera voce, ma le cose che ha affrontato, in particolare la depressione, sono legate alla mia vera voce.
E arriviamo a Kingdom Come : c’è così tanto dentro, la tua profonda conoscenza della mitologia DC come pure una profonda analisi a proposito della violenza nei comic books di fine anni ’80/inizio anni ’90. Come è stato misurarsi con un romanzo grafico divenuto poi così iconico ?
Onestamente ai tempi, sapevamo che sarebbe stato un po’ più speciale di un fumetto qualsiasi, ma né io né Alex (Ross, ovviamente! – ndr) avevamo idea del segno che avrebbe lasciato. Detto questo, non mi sono avvicinato a questo lavoro in modo differente da tutte le altre storie : comprendere quale sia la crisi emozionale su cui focalizzarsi, non perdersi nel plot così tanto da dimenticarsi un personaggio e cercare di mostrare al lettore qualcosa che non abbia mai visto prima. Rimango spiazzato al pensiero che è ancora considerato così tanto.