Il nuovo Dylan Dog, uscito solo a due settimane dallo speciale bis è una vera bomba. Mescolando assieme ansie contemporanee e la classicità delle storie vampiresche, getta nuova luce su un fenomeno, quello degli hikikomori, arrivato recentemente dal Giappone.
Anzitutto parliamone. Essere un hikikomori significa ritirarsi ufficialmente dalla vita mondana, chiudersi nella propria cameretta e vietarne l’accesso a tutti, genitori compresi. Le ragioni dietro un gesto di questo tipo possono essere molteplice, dall’ansia di vivere al mal sopportare i contesti social con cui i giovani esprimono la loro tolleranza zero verso il diverso ed il non convenzionale.
Di per sé ce ne sarebbe già abbastanza per un trattamento horror, ma Giancarlo Marzano rincara la dose, e ci serve un creepy pasta da far rabbrividire.
Diverse persone nella città di Londra ricevono la richiesta di far entrare un qualcuno non troppo specificato attraverso i vari social. Ed il risultato è una fine atroce senza nemmeno una goccia di sangue sulla scena del delitto.
Ad affascinare Marzano, della figura del vampiro, è la sua stessa compulsione ossessiva. Deve uccidere, perché ne ha bisogno, ma non può farlo se non è prima invitato ad entrare. Ed i social, con buona pace di Harlan Draka, contribuiscono a questa nuova tipologia di vampiro.
Una cosa che ritorna dopo un lungo silenzio è il cellulare di Dylan, che serve per comunicare con Kyle, il giovane hikikomori la cui madre è convinta che un mostro condivida il corpo con suo figlio.
La storia si dipana in una sequenza di incastri strepitosa. Dove azione e tenzione fanno di tutto per contendersi la scena.
Non si può non sottolineare la bravura senza freni di Armitrano nel tratteggiare l’opaco silenzio che avvolge nella notte i condomini londinesi. Ogni singola linea produce una particolare frequenza di tensione. E lo stesso si può dire per il character design dei personaggi, misurato, roccioso, ma gelido. Le sue tavole somigliano a quelle di un Corrado Roi più cattivo e meno sentimentale.
Nell’equilibrio della storia non rimane, credo, un briciolo di spazio per la pietà. C’è perfino lo spazio per delimitare l’utilizzo di un lettino solare a fucile di Chekov. E sarebbe il modo più originale di uccidere un vampiro che mi è capitato mai di leggere in tutti questi anni.
La storia di Kyle e della sua famiglia, che definisce chiaramente cosa lo spinga ad essere un hikikomori è terrificante. Come al solito mostra chiaramente come siamo noi ad essere i veri mostri. Mi sarebbe piaciuto però leggere qualcosa di più sul tipo di inferno che si scelgono questi ragazzi, mi sarebbe piaciuto vedere l’immondizia nella stanza e percepire la puzza di sudore rancido.
Invece ci fermiamo un attimo prima, strappati via dalle necessita del creepy pasta e di questo mostro, che è un vampiro fisico, per nulla sensuale, ma terribilmente brutale e senza ammaliature.
Il mostro, quello visivo, grafico, resta un mostro, e come tale finisce per essere eliminato senza alcuna pietà. I mostri, quelli veri, il machismo del padre di Kyle, o la fragilità della madre restano in sordina, mostrandosi solo al di fuori da quella che poteva essere una strepitosa seduta psicoanalitica.
Ma il mostro, e la paura del mostro, rimangono, lasciandoci nel buio a riflettere su quello che si annida nella nostra mente.
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