C’è qualcosa nella nuova pellicola di Scott Cooper dedicata a Bruce Springsteen che tocca delle vene che scorrono in profondità.
Non lo dico da Spingsteeniano doc, di quelli che possono vantare una doppia cifra di concerti visti con la E-Street Band (Uno pure nel New Jersey, rodetevi il fegato!), non lo dico da collezionista dei suoi dischi e neppure come uno che conosce tutti i suoi testi a memoria. Anche se naturalmente tutte queste cose sono verissime.

La profondità della pellicola è nel raccontare l’Uomo dietro la leggenda, ben sapendo che il momento esatto in cui viene fotografato è un momento topico. Lo racconta lo stesso Boss nel suo spettacolo Springsteen on Broadway (andatevelo a guardare su Netflix) e lo fa anche Warren Zanes nel libro uscito nel 2023 e che ispira il film.

In quel momento particolare, siamo dalle parti del 1982, Springsteen esce dal River Tour, un’esperienza che lo ha lanciato alla grande sul mercato nazionale. Tutti, la band, i fan e la casa discografica, si aspettano che il passo successivo sia la conquista del mondo attraverso un album che possa essere cantato a squarciagola in tutti gli stadi. Invece Bruce propone un disco senza tour promozionale e senza la band. Una esperienza acustica e profonda e dolorosa raccolta nella camera da letto di una casa isolata del New Jersey.
Springsteen ancora non lo sa, ma sarà un percorso che lo accompagnerà per tutta la sua esistenza, quello che lo attanaglia è la depressione. Una malattia tanto carogna quanto diffusa. E lui, dopo tutto il fragore del tour, dopo tutto il successo, sente il bisogno di nascondersi e raccontare storie nere. Si parla di miserabili, di piccole disgrazie, di vita vissuta ma, in realtà quello che Springsteen fa, è aprire le porte al suo dolore, cercare di entrarci in contatto e, per quanto possibile, esorcizzarlo.

Jeremy Allen White, è uno Springsteen incredibile e tutta la pellicola è un monumento a quegli anni, ai colori, allo sporco. New York, per dire, sembra benissimo quella pre Rudolf Giuliani e Tolleranza Zero.
Per gli amanti del Boss, vedere questo film è una esperienza mistica, si possono capire i riferimenti, dal titolo stesso, liberami dal nulla, frase presa da uno dei brani di Nebraska, fino ai piccoli dettagli che rendono quella pellicola quasi un documentario. Vedere il Boss incidere le canzoni su un quattro piste dà la sensazione di essere davvero là e allo stesso tempo è incredibilmente straniante poiché assistiamo a qualcosa che ha il sapore della leggenda.

Ma le strizzate d’occhio per i fan mi interessano fino ad un certo unto. Quello che mi colpisce è l’uomo con i suoi attacchi di panico, la rabbia che non riesce a decifrare, il momento catartico in cui finalmente esplode in lacrime. Fatevi un favore e andate a vedere questo film, proprio perchè non siete fan del Boss. Non rischiate di perdervi la scoperta di un animo umano profondo e sensibile, capace di creare canzoni struggenti e di unire la sua voce assieme a quella di sessantamila altre nel ruggito di un singolo stadio.
C’è un momento che vale la pena spoilerare, anche perché una pellicola come questa non viene certo uccisa dagli spoiler. Nel mezzo delle registrazioni, Bruce incide Atlantic City, un pezzo che tanto per cambiare parla di rivalsa e della necessità di rinascere anche se si è morti dentro. É una versione acustica, ma come per altri brani, si fa convincere a portarla in studio e suonarla con la E-Street Band (resa benissimo peraltro!). Bruce ha quasi un attacco di rabbia quando la sente suonata coralmente, non è semplicemente quello che ha in mente.
Lui vuole l’oscurità di quella incisione lo-fi acustica. E poi i titoli di cosa, dopo il percorso, dopo la cura, si aprono con una versione esplosiva suonata in uno stadio (Madison Square Garden 2001, circa?) con tutta la band.
Everything dies, baby that’s a fact. But maybe everything that dies, some days comes back.
